deliri

[a-bìs-so]

DIO D’ACQUA Festival – Ruderi della Concezione – Campagna (SA) @2025

si dice cadere in un abisso,
quasi come se l’inevitabile fosse l’unica umana, terrena
e solitaria condizione.
una gravità muta che non riesce a chiedere, non sa aspettare,
che rincorre trascinando le gambe e le promesse.
pensieri spezzati, respiri incrinati, corpi leggeri, svuotati,
custodie rigide e implose subito dopo eco assenti, intorpiditi,
appena rimbalzati.
narciso, oltrepasso il silenzio, guardo dentro,
mi attraverso e ritrovo tutto quello che so toccare,
so riconoscere dall’orrore, nell’errore,
in profondità dove tutto si traduce, tutto finisce, tutto si tradisce.

nascere è morire. questo è un abisso.
un secondo lunghissimo, matematicamente infinito,
vergognato, sverginato, sentito e ricominciato.
come l’umore caldo, liquido,
che rimane sui lati interni delle cosce,
nelle pieghe dell’inguine.
lascivo, riscaldato dall’attrito,
un semplice e perenne strofinare,
un’angosciante, solitario rinvenire.

si dice finire in un abisso,
rinnegare l’esistenza per la presenza,
sentire che ti guarisce solo se ti mortifica.
alla fine del principio resta il potere,
quella forza nera che alla luce ti strappa via,
ti costringe nel nucleo, ti ferma,
ti ammonisce, violento,
instancabile come un presupposto presuntuoso,
un miscuglio gelatinoso, un groviglio di tempo avanzato.

nascere è morire. questo è un abisso.
un abuso, un fascio, un rotocalco ripiegato, colpisce e schiocca,
schiocca e punisce.
pelle scorticata, nervi crudi,
si consumano come un paradosso d’istanti stiracchiati,
un movimento involontario, un giudizio disinteressato.

testo tratto da “Pensieri sulla soglia di una porta aperta” mai pubblicato, in perenne lavorazione.

L’acqua che contiene, il corpo che custodisce
“Ogni essere profondo ha bisogno di un’acqua profonda.”

Gaston Bachelard


Benvenuti nell'[a-bìs-so]

Non si entra in un luogo, si entra in un corpo.
Un corpo che si è offerto all’acqua,
che non galleggia, ma accoglie.
Un corpo che non mostra, ma rivela.
Che trattiene e nel trattenere, racconta.

Il corpo ritratto è quello di una donna.
Non musa, non oggetto,
ma madre: figura archetipica che genera, trattiene, contiene.
In lei si compie il paradosso dell’abisso:
non è il vuoto che inghiotte, ma lo spazio che custodisce.
Una madre che non spiega, ma lascia intuire.
Che non grida, ma lascia risuonare.
Una madre che non ordina, ma orienta.
Non offre risposte, ma stanze in cui le domande possono respirare.
Non indica la strada: la custodisce.
Il suo corpo è una mappa che si legge solo con gli occhi chiusi,
una voce che non parla ma che si deposita come sedimento.
Bachelard ci insegna che l’acqua profonda è l’immaginazione dell’origine.
In essa sogniamo la discesa, il ritorno al grembo,
al luogo dove tutto è possibile ma nulla ancora è deciso.
L’abisso non è la morte, ma l’attesa della forma.
È la possibilità ancora indistinta, lo sguardo prima dello sguardo.
È il battito prima del cuore.
Lo spazio in cui tutte le forme sono ancora liquide,
e ogni possibilità è contemporaneamente viva e silenziosa.
È ciò che esiste prima del pensiero, prima del linguaggio, prima dell’identità.

In [a-bìs-so], il corpo immerso diventa paesaggio interiore.
Ogni piega è eco di un dentro invisibile.
Ogni porzione di pelle è un racconto non detto,
un contenuto che affiora nel contenitore.
Un atlante liquido dell’intimità. Una mappa affettiva.
Non fatto di territori o confini, ma di soglie e sprofondamenti.
Ogni tratto è un frammento di memoria corporea,
ogni macchia una traccia emotiva.
Un paesaggio non geografico ma epidermico,
dove le geografie sono fatte di pelle, pieghe, acqua e sussurri.

Questo non è un corpo da guardare.
È un corpo da abitare con lo sguardo.
Un corpo che si lascia attraversare come una preghiera liquida,
senza tempo, senza nome, senza luce.
Come una conchiglia che conserva il suono del mare
anche quando il mare non c’è più.
Una presenza fossile, ma ancora vibrante.
Un’eco che sopravvive alla fonte,
che continua a parlare anche dopo che il corpo si è ritratto.
Il ricordo di un’intimità che persiste nelle pieghe vuote,
nell’assenza che pulsa piano.

L’opera è stata presentata, per la prima volta, in occasione del Festival di Arti Diffuse Dio D’Acqua che si tiene a Campagna (Sa).


[ìn-cu-bo]

2023 – 8:05min.

[ìn-cu-bo]

Una sintesi figlia della prigionia che stiamo ricercando dentro di noi, prepotente e stupidamente folle.

Acceso, spento, spento, acceso, in un ritmo ossessivo, compulsivo, convulso.

Quante volte nel corso della giornata accendiamo o spegniamo schermi? Anche quando non ci servono, solo per controllare una notifica, una mail, un messaggio, la tv come compagnia, il tablet o il cellulare per accompagnarci nel mondo dei sogni e farci risvegliare? Ci “scrolliamo” di dosso il pensiero.

Restiamo troppo spesso “con la testa nel telefono”, china, il viso illuminato innaturalmente dalla luce emanata dal dispositivo, mentre guidiamo, mangiamo, mentre moriamo.

Siamo noi a fruire dello strumento o forse esso ad usare noi (abusare?), rubandoci il tempo che sosteniamo di non avere? Perché permettiamo ciò? Abbiamo rinunciato alla responsabilità, rivenduto il controllo, rinnegato la ragione. Intelligenza artificiale, artificiosa.

Il cubo illumina sì, ma acceca, nel cubo tutto è luce abbagliante e quando sposti lo sguardo la luce rimane e si imprime sulla retina per alcuni istanti, ingannando la vista, ingannando la vita.

Sbarre che si fanno strette intorno, il tempo è una chimera, la noia diventa mostruosità, il silenzio, un miraggio da pagare a caro prezzo.

Ma c’è una verità inconfutabile: per quanto lungo e mostruoso possa essere, dall’incubo ci si sveglia sempre.

A synthesis born of the imprisonment we seek within ourselves—overbearing and foolishly insane.

Lit, dark, dark, lit—in an obsessive, compulsive, convulsive rhythm.

How many times each day do we turn screens on and off? Even when unnecessary—just to check a notification, an email, a message; the TV as company, the tablet or phone to lull us into dreams and yank us awake? We “scroll” our thoughts away.

Far too often we remain “heads buried in our phones,” bowed, faces unnaturally illuminated by device-born light—as we drive, as we eat, as we die.

Are we using the tool, or is the tool perhaps using us (abusing?), stealing away the very time we claim we don’t have? Why do we allow this? We’ve surrendered responsibility, bartered away control, forsaken reason. Artificial intelligence—indeed, artificially intelligent.

Yes, the cube illuminates—but it also blinds. Within the cube everything is blinding light, and when you look away, the glare lingers, burning itself onto your retina for moments afterward, deceiving sight, deceiving life.

Bars close tighter around us; time becomes a chimera; boredom mutates into monstrosity; silence—a mirage dearly paid.

Yet one truth remains indisputable: no matter how lengthy or monstrous, from every nightmare we inevitably awaken.


[nièn-te]

2016 – 12:17min.

niente, prima la risposta.

la ricchezza e la malinconia, la severità di un’architettura sbadigliata, noiosa. appiccicata. cadente, caduta, dignità scolorita, anima perduta. rime strati scuri, traumi, colpi, panni battuti, abbattuti. storpie finestre, interrompono una geometria scocciata, depressa, miracolosamente sopravvissuta, finora, per ora.

la noia di una conversazione assopita, confusa, poco interessata. in ascensore, futili avverbi si rincorrono, sorrisi tirati, maniche lunghe, cartelli, specchi evasori.

non per fare il fiscale ma

a cosa serve tutto questo?

nothing, first of all, the answer.

the richness and melancholy, the heaviness of a sleeping architecture, boring. Pasted. Falling and crushed, a fading dignity of a lost soul.

dark layers, rhymes, trauma, stroke, beaten cloths, slaughtered. crippled windows, interrupt a geometry irritated, depressed, miraculously survived, until now, for now

the boredom of a sleepy conversation, confused, uninterested. in the elevator, adverbs futile chase, strained smiles, long sleeves, posters, escaping mirrors.

what is all this for?


ADAMEVE

2015 – 9:47

Adameve, tutta colpa dell’essere umano.

Nel capovaloro di Michelangelo, Creazione di Adamo, pochi millimetri separano le dita di dio da quelle di adamo e in quei pochi millimetri tutto il dubbio, il rumore che (continuo, perenne) vuole scrollarsi di dosso, con scarso risultato, una colpa che l’essere umano porta con se da migliaia di anni.

Non esiste nessun dio, gli dei sono delle aberranti creazioni terrestri che hanno fatto sì che l’uomo potesse discolparsi di volta in volta di tutto il male che questa, tanto geniale quanto spaventosa invenzione, gli ha concesso fin dalle ere più lontane.

Adameve nasce nel 2009 con queste poche righe:
In esso l’uomo ripose tutti i segreti, così come con il maestoso albero cavo, lo ha rimpinzato di ogni genere di mistero, di fenomeno inesplicabile, di menzogne, di paura, umana e criminale paura.

Dio, d’io, l’essere, l’umano, l’uomo, l’unico responsabile.

Proprio come nella favoletta della Genesi, Adamo ( Carbone ) non può essere, esistere, senza la sua Eva ( Annika Miglino ) e quindi prima di concretizzare quelle poche righe, ha aspettato che Lei finalmente si manifestasse portando con se la mela, simbolo di amore eterno.


AMEN

2013 – 4:54min

Amen è un delirio video di Francesco Carbone e nasce da uno spunto, quasi casuale, che Francesco trae nel vedere un uomo legato a un palo, in segno di protesta.

Liberi? non lo siamo mai, lo siamo sempre. Cosa ci rende migliori? A cosa serve essere liberi?

Amen non è la risposta a queste domande ma è il continuo chiedersi cosa sia giusto, dove abbiamo sbagliato, chi comanda, chi dispone, chi ne gioisce.

Amen si costruisce molto rapidamente su carta, l’idea è quella di dissacrare alcuni fondamenti, spianare qualche colonna, minare la montagna sacra, mostrare l’altra faccia di una medaglia che di indulgenze ne ha già chieste troppe.

Amen combatte il pensiero unico, la fede integralista, genera dubbio, genera pensiero, domande che fanno altro, ci avvicinano al diverso, ci fanno sentire liberi di scegliere le nostre galere.

Amen nelle immagini è un bianco e nero che nasconde ciò di cui non abbiamo bisogno, costringe lo sguardo sul reale, negando tutti gli orpelli, le parabole, i calici dorati.

NON IN NOME DEL PADRE

NON IN NOME DEL FIGLIO

E NON VI E’ NULLA DI SANTO

NULLA DI SPIRITOSO

La musica di Amen è una litania di metallo, una lega sconosciuta, grattata, polvere di una ruggine che non si può catturare, che non si deposita, che non vuole collaborare.

FORMULA, FARSA RIPETUTA, SCIA DIVINA, CODA SGRETOLATA, VIZIO PENTITO, PECCATO CONFESSATO… IN PARTE.

Francesco Carbone e Daniela Lunelli (@munsha_33) descrivono il costante compromesso che la fede propone, riscrivono il sentiero, ripercorrono il cammino, osano sfidare quel “d’io” che non ci lascia più guardare.

UNICO PREPOTENTE E BUONO

DENTRO DI VOI, UNICO PREPOTENTE E BUONO.